Si è parlato molto del progetto dell'Attesa, una delle novità più interessanti di questa edizione del Teatro Festival: oltre all'idea di mettere “in scena” le storie direttamente in mezzo alla gente, l'aspettativa era maggiore proprio per la scelta di realizzarle a Napoli, luogo per eccellenza nel quale (chiunque può verificarlo semplicemente scendendo in strada) la partecipazione alle cose che accadono, ovunque ed a chiunque accadano, è normalità assoluta, e rende quasi impossibile, come anticipato da Renato Quaglia, capire quale sia il limite, oltrepassato il quale, ci si possa convincere di trovarsi di fronte a degli attori e ad una finzione, piuttosto che rimanere all'interno della costruzione di una propria drammaturgia di invenzione.
Questa non-differenza fra i “fatti nostri” ed i “fatti loro”, vissuta in questa dimensione quotidiana, mi fa scomodare l'etimologia più nobile del concetto stesso di comunicazione: il latino communicare significa rendere comune, far partecipi gli altri di una cosa. A Napoli, ciò che avviene nello spazio pubblico è proprio questo: si mette in comune quello spazio, proprio come se le distanze fisiche interpersonali, anziché creare isolamento e disgiunzione fra gli individui, fossero ancora considerate come spazi aperti al contributo, all'interessamento ed alla partecipazione fra quanti, in quel momento, intendano entrarvi.
Stavolta però sarà un'osservazione esterna dell'interno: seguiamo le prime Attese confondendoci tra la gente in fila o per strada, a cominciare da via Roma, nella zona della funicolare Centrale, e fra il Vomero ed il Parco Margherita, scendendo per la funicolare di Chiaia.
La prima delle narrazioni inscenate è Assenti di Ivan Cotroneo, nella quale agiscono due personaggi “non-vivi”, chiamiamoli pure fantasmi, dall'aspetto molto démodé, in contrasto fra di loro a causa della ostinazione di lei (Alessandra Di Castri) a rimanere ancorata in qualche modo fra i vivi, per continuare a “viversi” il suo amore per un ragazzo (Francesco Testa) invece molto vivo; lui (Ivan Marcantoni) la seguirà nella sala d'attesa della funicolare, e cercherà di convincerla a ragionare ed a considerare assurdo il suo attaccamento ad un amore impossibile di cui resta traccia soprattutto in un ritratto del ragazzo che lei ossessivamente continua a disegnare.
L'aspetto dei due già provoca, per strada, alcuni sguardi curiosi che si voltano per seguirli; lei si siede al tavolino di un bar ma non ascolta il cameriere (non può, non appartiene a questo mondo), e così ricomincia a disegnare il volto del ragazzo, finché si rialza e se ne va, seguita dall'esclamazione “E già, e chella po', nun vuleva niente: vuleva disegnà...!”
Nel bar dove per il terzo giorno lei entra, chiede un cappuccino e poi lo lascia sul bancone intatto e se ne va, ormai le viene servito uno a metà, senza aspettare nemmeno la richiesta, e con un gesto molto indispettito del barman, forse irritato per lo spreco: “Ma se po' sapè, 'o vuo' o nunn'o vuo'?”
Da domani, infatti, dovrà cambiare bar...
Nella sala d'attesa, lei sta di fronte al ragazzo, continua a disegnare, e quando si allontana una signora lo avvicina: “Guagliù, ma l'avete vista? Quella signora, stava disegnando proprio a voi!!!”
Entrano nel vagone, la discussione continua finchè entrambi non escono, lasciando solo il ragazzo.
E naturalmente, si apre il dibattito...
“ Ma vuje l'avite visti, a quelli? Comm'erano strani!”
“ 'a verità, lui era così bravo, ma c'era quella che chissà che vuleva, ma 'sti giovani che vanno trovando...”
“ Sentite, secondo me stavano facendo finta, che ne so, una specie di recita...”
“ E perchè po'? Mah, non mi pareva...”
Interviene convinto un giovane che cerca di persuadere due passeggeri perplessi: “Guardate, secondo me era tutto vero, non stavano recitando affatto...” gli chiedo perchè ne fosse così convinto, e lui “beh, li ho osservati un po', sono un tecnico della cinematografia...”
Prendo questo complimento, lo giro ai tre attori che intanto sono scomparsi nella folla, e continuo a confondermi tra la gente nella funicolare di Chiaia: qui la cornice è ancora più scenografica, i due attori sono vestiti apparentemente per uno sposalizio, scendono la scalinata e camminano per tutto il tempo con una lentezza assoluta che già da sola provoca numerose reazioni di ogni tipo, ma soprattutto hanno una espressione completamente assente, appunto, con uno sguardo fisso che fa dire alla prima signora accanto a me “Uh marò, ma chella se sente bbuono?”, e poi via via, nel vagone:
“Pensavo che fosse un matrimonio, ma chist'è 'nu funerale...”
“ Forse è una scena... ma di cosa?”
“ E se fosse che stanno facendo questa cosa per vedere le nostre reazioni? In questo caso, gli attori saremmo noi...”
“ Sentite, se ci fosse una cosa da girare, se a qualcuno serve un attore, lo faccio io, a disposizione, io so' pure bravo...”
“ Scusate, ma avete visto che non ci sta la telecamera, non ci stanno i fotografi... allora è overo! Questi veramente fanno...”
Lei (Maria Mautone) esce lentissima all'aperto e si avvicina ad un lampione del Parco Margherita mentre lui (Ciro Arancini) la protegge dal sole con un ombrello, conservando una fissità assoluta. Depositano una corona di fiori con un biglietto dedicato ad uno dei martiri della Repubblica Partenopea del '99.
Mi avvicino ad una signora che sta ferma a guardare tutta la scena, ma non faccio neanche in tempo a chiederle cosa stesse accadendo, fa tutto lei: “Guardate là. La vedete a quella? Viene ogni giorno perchè là è morto il fidanzato in un incidente, e allora lei gli porta i fiori e lo pensa sempre, che bel gesto però, eh? Oggi quando la vedete più, a gente così, qua nessuno gliene frega niente di quello che succede agli altri...”
“ Signò, ma che state dicendo? Un incidente qua sotto? Ma scusate, comm'è, quello io abito proprio in questo palazzo, e nunn'agg'mai visto niente... Com'è possibile?”
“ All'anima, ma non ho capito, e voi davanti a una scena così, che quella la signora tiene questa sensibilità di venire qua tutti i giorni, una scena d'amore, vi preoccupate soltanto che voi non sapete qualche cosa che è successo? Ma lo vedete com'è, la gente, signore, quella nientedimeno pensa solo a sapè che è successo e non guarda la cosa più bella... ma dove siamo arrivati...”
Insomma, si sfiora la rissa. Verbale, almeno.
Continua così, per tutto il percorso, si torna a salire in collina, termina la scena ma non terminano i commenti, che seguono gli attori come in una scia verbale ed emotiva.
“ Alla Stazione Centrale è più importante mantenere la scena con la Parola, alla funicolare conta di più l'azione – dice Ivan Marcantoni – ma ciò che risalta è che spesso il potenziale performativo che offre Napoli spontaneamente è addirittura più forte del nostro”.
“ Ogni volta, depositando i fiori, cambiamo l'omaggio per uno dei martiri del '99 – così Maria Mautone -. Ieri, risalendo in funicolare, mi sono emozionata quando, dopo la scena di una signora che, in silenzio come noi, ha insistito tanto per farmi sedere, ho avuto la percezione che qualcosa fosse accaduto davvero quando ho sentito, tutto intorno, la gente parlare di Mario Pagano...”